PAESAGGIO

COME

BENE COMUNE

Propongo un mio breve intervento sul tema vastissimo di Paesaggio come Bene Comune.

Lo lessi nel 2018, in occasione della Seconda Giornata Nazionale dei Beni Comuni, organizzata dalla Sezione Vulture-Alto Bradano per opera di Vitantonio Jacoviello. Agivo in rappresentanza della Sezione Matera di Italia Nostra, con un tema sul territorio del Vulture, ma certamente richiamando postulati molto più generali. Il senso di ogni caso specifico ha infatti il suo valore nel contesto generale: lo so come archeologa, lo so come osservatrice della realtà. Per questo lavorare sul metodo è essenziale, costruire il pensiero è l’opera prima.
Per questo richiedere ossessivamente la concretezza come principio di qualità ci ha ridotto nello sguardo al generale, riducendoci in una dimensione di bisogni individuali come pretese da accordare necessariamente.
In questo contesto umano atrofico, imbrigliato nella dualità rigida di privato-pubblico si inseriscono i Ben Comuni, una categoria trasversale potremmo dire, io invece direi educativa, pedagogica. Una categoria efficacissima per aprire le nostre menti a un nuovo vero cambio di paradigma al quale, proprio per la sua semplicissima e rivoluzionaria idea, avvia a una rigenerazione del tessuto sociale.
Lo riporto integralmente, per dovere di cronaca ma non solo. Allora come ora ci credo, bisogna crederci, è imprescindibile parlarne. Ore e ore senza sentirsi schiacciati dal desiderio del fare pur di fare.
Prima di fare si deve capire, interiorizzare, fare proprio.
Non sono solo parole, come dice Vasco in una canzone, parlarne sono FATTI.

Lo sguardo meravigliato è un bene di tutti. La logica del Paesaggio Bene Comune

Il bene comune è un bene che implica la condivisione e la partecipazione attiva nella produzione di conoscenza e questo implica che non può essere né privatizzato né sottoposto a restrizioni.
Una prima essenziale linea di demarcazione.

Non parliamo pertanto di una merce declinabile in termini di avere, ma di una «pratica politica e culturale che appartiene all’orizzonte dell’esistere insieme», come è ben detto nel volume di Ugo Mattei, I beni comuni, un manifesto.
Il naturale destinatario dei Beni Comuni, quindi, non è più il soggetto giuridico, ma la “persona”, un termine che l’attuale giurisprudenza va recuperando, poiché tangibile e principalmente volto ad affermare e garantire esigenze di carattere esistenziale.
Un approfondimento del concetto di humanitas che trova un suo dilatato spazio nella scienza del diritto. «È la riconquista di spazi pubblici democratici, fondati sulla qualità dei rapporti e non sulla quantità dell’accumulo». Si chiama “amministrazione condivisa”, non partecipata, vorrei sottolinearlo: cittadini e amministrazione che insieme convergono nella cura di un Bene che è di tutti.
Disquisire in questa sede di quelle che, non di rado, sono classificate come “aporie dei beni comuni”, istanza da più parti sollevata, e nella cui ottica di mercificazione sembrano orientarsi molte soluzioni in materia di beni culturali, non è opportuno in questa sede, forse, ma vorrei dire, con la solita inconsistente predilezione per la pura poetica dell’immaterialità che mi contraddistingue, che godere di un bene comune è il più alto slancio verso la concretezza dell’essere Umani.
«Quando i cittadini si prendono cura dei beni comuni», e non lo dico io, ma lo sottolinea il Presidente di Labsus, «producono un valore aggiunto straordinario che è il capitale sociale, perché tutto questo produce senso di appartenenza, facilita l’integrazione, crea coesione sociale. Ha tutta una serie di effetti positivi che non si vedono e che sono molto più importanti degli effetti materiali, tutto questo libera energia».
All’interno di questo quadro inserisco con molta impudenza il concetto di Paesaggio Culturale, come il più materiale dei beni comune con un’immaterialità data dall’estensione sconfinata.
Certo è che parole tanto aperte e apparentemente divergenti assommano incertezze e orientano verso la succitata aporia.
Io invece tenderei a coniugarle nell’idea di tutela, tutela del Bene in quanto tale e del suo riflesso su di noi. Torniamo quindi, come ben capite, al concetto di humanitas, concetto antico e moderno: homo sum: humani nhihil a me alienum puto, la sententia esemplificativa di Terenzio, ne proclamava il valore universale e onnicomprensivo.
La capacità di ammirare la vastità dei campi ammantati di grano Saragolla delle colline di Monteserico rientra appieno, e di gran carriera, nel senso puro ed essenziale di paesaggio culturale e bene comune.
Abbiamo il maniero che domina su una collina che è quasi una motta della natura: circoscrive con il suo sguardo dal terrazzo una vastità che è la valle del Basentello. Una vastità di campi morbidi ancora coltivati a grano.
È questo un paesaggio culturale in senso pieno: le casette della riforma agraria si allineano sui solchi delle stradine interpoderali, connotando un paesaggio antropico moderno che in parte ha preso il posto della selva boschiva che Federico aveva scelto per la sua domus solaciorum. È però un paesaggio che rimane documento, che mantiene il castello e il borgo fortificato come vessillo del bosco, e i campi con le case coloniche come eco contadina che riallaccia ai nostri nonni. È un paesaggio culturale in senso pieno, un documento della trasformazione.
Un’idea di unità territoriale da non minare, mentre le pale, a poco a poco lo circondano. Non del comune di Genzano (almeno non su quel versante), ma di Gravina, Spinazzola, Banzi. Di confini di paesaggio tracciati con la matita sulle carte e sulle mappe.
«Ci sono pale vere e pale finte», dice Caporale nel suo libro Controvento, e con questo bisogna farci i conti. Ci sono risorse come il vento, che sono green, così dicono. Io, che ci ho lavorato in un parco eolico, mi sono sempre chiesta quanto sia green realizzare un parco eolico e quanto green dobbiamo recuperare in termini energetici dopo aver sbancato, sfettato colline, riempito di cemento per centinaia di metri sotto e accanto, aver disseminato ferraglia girante che primo poi smetterà di funzionale assumendo il carattere di cimitero di pertiche longobarde smisurate, immesso tra mezzi pesanti e trasporti eccezionali delle pale dismesse dalla Germania (perché obsolete e portate da noi che invece siamo conservatori), dicevo quanto dobbiamo essere green per smaltire il saldo dell’inquinamento causato. Gli ingegneri ambientali dicono che il saldo è attivo. Io rimango scettica. Ma così si muove l’economia. Non possiamo rimanere fermi a quello che spesso mi viene imputato come feticismo del passato.
Ho letto di recente un articolo di Ferruccio Ferigni, La gestione dei paesaggi culturali: questione complessa, approccio olistico (2013), in cui l’autore si chiede «perché la ricerca dei vantaggi particolari diretti ed immediati, lo stimolo che ha mosso tutti gli attori delle trasformazioni storiche viene oggi ritenuta non solo pericolosa per l’integrità del paesaggio, ma addirittura illegittima?». Lui risponde che è vantaggioso sviluppare dinamiche economiche diligenti di sfruttamento e tutela proponendo un criterio analitico di valutazione che collimi vantaggi e svantaggi, economici ovviamente. E fin qui… Pone però un problema di turismo culturale per le cartoline paesaggio evidenziando quanto il problema sia intricato e non possa che svilupparsi dalla coscienza del Bene.
Tutti abbiamo letto e riletto la frase di Peppino Impastato, l’abbiamo citata a volte a pappagallo perché ha girato moltissimo sui social ed è un must delle conversazioni sul tema.
Vale la pena di rileggerla con la coscienza profonda del Bene Comune:
«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».
Al perché di Ferruccio Ferigni io invece non rispondo, perché la mia risposta la demando a questa foto fatta a marzo 2018 a Genzano.
Ognuno poi voglia dare la propria risposta.
Dico solo che parcellizzare la normativa e la tutela a distretti geografici con confini definiti genera delle storture che impediscono di fatto le buone pratiche dei comuni che tentano di essere virtuosi, nonostante le avversità di questo terribile momento di crisi.
E mi ribello poi al sentir parlare di progetti e idee belle, bellissime su Paesologie, Parole Ostili, Gardenotopie e via dicendo se questi neologismi rimangono vacui tentativi empirici, dietro problemi che hanno lo spavento cruento della realtà.

Vorrei aggiungere una triste osservazione su quanto sta accadendo a Matera in questi giorni, proprio mentre cade la giornata del Beni Comuni. Nel quartiere Lanera stanno per abbattere 86 pini, pini con 60 anni, pini che disegnano un laboratorio di architettura post-sfollamento, assegnando ai palazzi di non più di 4 piani, con i cortili comuni, una via alberata ombrosa; pini che poco oltre hanno dato nome al Rione Pini, un quartiere che si è riconosciuto nell’albero come simbolo toponomastico.
Non ho il tempo per raccontare la storia urbanistica del quartiere Lanera, progettato dall’ing. Marcello Fabbri e dall’arch. Coppa; vi dico che ha un palazzo centrale senza spigoli con fondazioni in cemento ad ombrello, poco oltre c’era la colonia elioterapica. Un’area salubre e feconda progettata in quello straordinario laboratorio di idee che si generò in città.
Nel 1952 nacque la Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera, promossa dall’UNRRA-CASAS ed istituita da Adriano Olivetti, presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e dal sociologo Friedrich G. Friedmann. Si c’era un sociologo nell’equipe perché la dimensione sociale era dirimente, aveva un ruolo essenziale quando si progettavano case per gli uomini. Ora, per chiudere, ci sarà la possibilità di una controperizia per salvare i pini, ma la questione ridotta a pini non-pini mi sembra davvero deprimente: abbiamo un paesaggio culturale, un laboratorio sociale, un’urbanistica modello da salvare insieme ai pini. Non perdiamo di vista questo concetto essenziale, perché se i pini saranno malati davvero, uno 20. 40 86 non avremo risolto il nostro problema: quello che a monte dell’intervento abbiamo chiamato Beni Comuni come capitale sociale.